Petrolio, carbone, gas naturali, metalli preziosi e possibilità di nuove tratte navali. Ecco quali sono i tesori che stanno emergendo con lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico. Utilizzarli? Possibile, ma il prezzo da pagare è, di nuovo, troppo alto.
Lo scioglimento dei ghiacciai è uno dei grandi problemi ambientali che ci stiamo trovando ad affrontare nel nostro secolo. Come tutte le crisi di larga scala, scioglimento e diminuzione del permafrost (ovvero quelle superfici terrestri perennemente ghiacciate grazie alle basse temperature) non sono eventi improvvisi: si stima che le temperature globali siano aumentate di oltre 1° C al di sopra della media dell’era preindustriale, la cui ovvia conseguenza – fra le tante – è stata lo scioglimento dei ghiacciai presenti sulla superficie terrestre.
La temperatura media annua è destinata a salire: nonostante l’impegno al raggiungimento dell’obiettivo di contenerne l’aumento ad un massimo di 1,5° C entro il 2030, previsto dalla scorsa Cop26, i dati dicono altro e si stima di superare i 2,7° C entro la fine del secolo.
Le conseguenze? Entro il 2050, l’Artico non avrà più ghiacci per alcune estati. Senza ghiaccio, la biodiversità polare sarà a rischio, i livelli dei mari si alzeranno e aumenteranno fenomeni atmosferici e meteorologici devastanti come ondante di gelo e termocarsismi (processo di degradazione del permafrost che prova rilascio di carbonio organico ndr). Negli ultimi anni l’attenzione verso il circolo polare artico è esponenzialmente aumentata. Questo interesse tuttavia non è stato mosso dalle preoccupanti sorti degli orsi polari, i quali ben presto si troveranno senza casa andando incontro ad un’inesorabile, ed ennesima, estinzione, ma dall’apparizione del Dio Danaro sul circolo polare Artico.
Lo USGS (United States Geological Survey) ha stimato che i mari artici ospitano il 40% delle riserve globali di petrolio e gas naturali, pari ad un valore economico di 20 trilioni di dollari, ed equivalente a 400 miliardi di barili di petrolio.
Il circolo polare Artico è una zona ancora inesplorata a causa delle dure condizioni climatiche e dai rischi e pericoli che la tundra riserva: con lo scioglimento dei ghiacci, però, la zona diventerebbe più accessibile. E così, l’uomo, può metterci il suo zampino.
Non solo risorse naturali: la scomparsa delle calotte glaciali e il rientramento della banchisa artica aprirebbero nuove rotte navali, volte a favorire il commercio marittimo e accorciando notevolmente i collegamenti fra i vari continenti.
Insomma, l’Artico è destinato a diventare il nuovo Sud America Polare (Sic!), da sfruttare sia come fonte di risorse naturali, sia come “scorciatoia” per le tratte commerciali. Gli Stati della regione Artica si sono ben presto resi conto delle potenzialità di questa zona remota prima inaccessibile, e i negoziati per accaparrarsi il diritto di sfruttare anche questo angolo di mondo sono già iniziati.
Tesori artici: di chi sono?
Queste inestimabili risorse (naturali e strategiche) si trovano in acque internazionali. È difficile stabilire quindi quali Stati abbiano diritto ad usufruirne.
Ma facciamo un passo indietro.
I paesi appartenenti al Consiglio Artico (l’organismo intergovernativo che regola la cooperazione tra gli Stati Artici e le comunità indigene per ciò che riguarda lo sviluppo e la tutela ambientale) sono:
- Danimarca (attraverso la Groenlandia);
- Canada;
- Islanda;
- Norvegia;
- USA;
- Russia;
- Finlandia;
- Svezia
A questi, si aggiungono anche degli stati “osservatori” – fra cui, dal 2013, anche l’Italia – ovvero Stati che, pur non confinando direttamente con il territorio Artico e non avendo quindi nessun diritto giurisdizionale di commercio, sono impegnati in attività di promozione e salvaguardia di questa zona.
L’Italia, ad esempio, si è guadagnata lo status di “membro osservatore permanente” grazie a diverse attività di mantenimento e ricerca, come la base artica Dirigibile Italia situata nelle isole Svalbard, in cui è stata girata una scena del film Quo vado? con Checco Zalone (che un po’ tutti conosciamo).
Mentre gli Stati osservatori non detengono alcun diritto sull’esplorazione e sull’utilizzo delle risorse del fondale Artico, tutti gli altri paesi sì (ad eccezione di Finlandia e Svezia, che non confinano con l’Oceano Artico). In particolare, sono Russia, Danimarca e Canada a rivendicare il diritto su questa area.
La Convenzione degli Stati Uniti sul Diritto del Mare stabilisce che ciascun paese coinvolto detiene una zona esclusiva di commercio: ma come fare a stabilire quale area appartiene a quale Paese? Per quanto riguarda i confini territoriali, la questione è – relativamente – più semplice: il passaggio a nord-ovest appartiene alla Federazione Russa, mentre quello a nord-ovest al Canada. Per questo motivo, i due paesi potrebbero imporre dazi doganali per il passaggio in quelle acque. Gli Stati Uniti tuttavia contestano questa posizione, ritenendo il passaggio uno stretto internazionale, e la questione è ancora in sospeso da parte dell’ONU.
Ancora più ambigua è la faccenda della suddivisione dei fondali marini, in cui si nascondono i tesori che fanno più gola agli Stati: attualmente, sono ritenuti in acque internazionali e regolamentati dal ISA (International Seabed Authority), l’unico ente che può autorizzarne l’esplorazione e lo sfruttamento. La questione non è facile: trattandosi di fondali, come fare a suddividere con precisione quale zona è di esclusiva di uno Stato rispetto ad un altro?
Ovviamente, ognuno di questi cerca di accaparrarsi le zone più ricche di idrocarburi e più versatili da sfruttare a livello logistico. Questa situazione ha fatto emergere diversi dibattiti politici e territoriali: la Russia, ad esempio sostiene, già dal 2007, che i fondali sottomarini di Lomonosov siano un prolungamento della piattaforma siberiana, e che quindi quella zona appartenga a lei.
La questione è ancora aperta: gli scienziati però si chiedono se qualcuno abbia pensato, oltre ai possibili soldini da far fruttare, anche ai risvolti ambientali.
All’ambiente ci pensa qualcuno?
Come abbiamo già detto, accedere a questi tesori equivale a mettere in gioco oltre 20 trilioni di dollari. Inestimabile è il guadagno, invece, derivante dalle nuove tratte che si stanno aprendo con lo scioglimento dei ghiacci. Ma ci si chiede se davvero il gioco valga la candela.
A causa della situazione socio-politica della Russia, le decisioni sono state rimandate: per adesso. L’esplorazione inoltre è estremamente rischiosa, pericolosa e costosa in questa zona remota del Globo, e gli Stati non sanno se realmente vale la pena né al momento hanno a disposizione la giusta tecnologia e personale formato per affrontarla. Ma cosa succederebbe se davvero si iniziasse a sfruttare l’Artico in modo massiccio?
L’equilibrio di questo ambiente già così fragile, verrebbe completamente devastato e le ripercussioni sarebbero globali. Il traffico navale, gli interventi di estrazione e le attività ittiche devasterebbero l’ambiente e minerebbero la sopravvivenza della già a rischio fauna e flora Artica, sconvolgendo ancora di più la temperatura globale.
A febbraio di quest’anno, è stato stimato che la superficie di distesa di ghiaccio dell’Artico è diminuita di 770 mila Km2 rispetto all’estensione massima raggiunta nel 2010: se è difficile rendersi conto di questa cifra, si pensi che si parla dell’equivalente superficie di Grecia e Francia messe insieme. Questo fenomeno – nonostante le opinioni discostanti degli ultimi giorni – è stato causato del riscaldamento globale: secondo un rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) del 2021, se la situazione dovesse continuare con questo trend, ancora prima del 2050 si potrebbe assistere ad estati completamente prive di ghiacci. Se la mano dell’uomo dovesse iniziare ad operare massivamente, la situazione peggiorerebbe:
- Cambio dell’albedo: ovvero cambio del potere riflettente di una superficie. Più i ghiacci si sciolgono, più le radiazioni solari vengono assorbite dall’acqua (e non riflesse, come accade quando un fascio di raggi si scontra con una superficie riflettente come può essere il ghiaccio) aumentando ancora di più il riscaldamento globale;
- Riduzione degli habitat e della biodiversità: orsi, trichechi, foche e la vasta popolazione artica rimarrebbe senza “casa”. Questo comporta anche un rischio di scontro: animali come gli orsi, rimanendo senza il loro habitat e quindi senza cibo, inizierebbero ad avvicinarsi agli insediamenti umani per cercare di alimentarsi;
- Ondate di gelo: secondo il meteorologo Judah Cohen (Mit Usa) il calo delle superfici ghiacciate causerebbe ondate di gelo a sud del globo. Questo perché il vortice polare (l’area di bassa pressione della stratosfera che circonda il Polo) perderebbe la sua traiettoria circolare e, deformandosi, farebbe arrivare delle ondate di aria fredda anche al sud, portando con sé eventi meteorologici estremi come nevicate distruttive e temperature glaciali nei mesi invernali;
- Aumento del livello del mare: il livello medio del mare si è già alzato di più di 0,20 M dall’inizio del ‘900 ad oggi. Se tutti i ghiacci si sciogliessero, i livelli globali degli oceani arriverebbero a +70 M rispetto ad oggi. Le conseguenze? Temperature più alte di almeno 2-3°;
- Rilascio di gas serra: il permafrost è ricco di metano e anidride carbonica sotto forma di materia organica: se questo si sciogliesse completamente, questi gas verrebbero rilasciati nell’atmosfera e arrivare, di conseguenza, nei nostri polmoni;
- Aumento di virus, batteri e sostanze chimiche: lo scienziato Bjӧrkman Mats dell’Università di Gӧteborg (Svezia) fornisce un esempio molto suggestivo: cosa succederebbe se il cibo contenuto dei nostri freezer venisse scongelato a causa di un black-out? La materia organica inizierebbe a decomporsi e, durante questo processo, i microbi inizierebbero a rilasciare gas e batteri. Inoltre, non si sa cosa c’è già “congelato” nei ghiacci dell’Artide: lo scioglimento potrebbe far emergere virus sconosciuti rimasti lì per anni;
- Conseguenze paesaggistiche: aumenterebbero i crolli del terreno, aumenterebbero la formazione di laghi ed erosioni e le popolazioni dell’Artico sarebbero costrette a spostarsi.
Molti si chiedono – ambientalisti, con scienziati e ricercatori – se invece di insistere sulle attività di esplorazione nell’Artico, non sarebbe meglio investire nello sviluppo tecnologico, cercando invece soluzioni più sostenibili e al passo con i tempi.
Che l’uomo abbia dimenticato che la diminuzione dei ghiacciai è stata causata da lui stesso, mettendo a rischio l’equilibrio naturale e la salubrità della vita degli uomini stessi?
Forse il popolare detto “sbagliando si impara”, alla fine, così vero non è.
Articolo di Marzia Diodati
Fonti
Giovanna Camardo, “Se sparisse il ghiaccio dei Poli…”, Focus n. 355 (05/22), pp.65-69
Vito Tartamella, “Ed è già corsa ai tesori nascosti”, Focus n. 355 (05/22), pp.71-74
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