È il quotidiano britannico “The Guardian” a lanciare l’allarme: sì alle energie green per un futuro più pulito, ma ci sarà un prezzo da pagare. Ancora una volta, i protagonisti sono il litio e il cobalto.

 

L’obiettivo di abbandonare l’utilizzo dei combustibili fossili, sostituendoli in modo permanente con soluzioni alimentate da fonti di energie rinnovabili, si sta concretizzando. E, inseguendo il sogno di un pianeta più pulito, le energie green si stanno facendo strada. Molti progressi e grandi speranze, ma non tutto quel che luccica è oro. 

È il “The Guardian” che lancia il primo allarme: i vantaggi, a lungo termine, di una tecnologia totalmente verde sono innegabili, ma il nostro pianeta sarà sottoposto – di nuovo – ad un sovraffaticamento. Il motivo è semplice: l’estrazione dei materiali per la costruzione dei dispositivi tecnologici alimentati dalle fonti di energia rinnovabili (macchine elettriche, pannelli fotovoltaici, impianti eolici, ecc.), causa gravi impatti ecologici, ledendo la biodiversità. In particolare, il problema principale riguarda l’estrazione del litio e del cobalto, materiali indispensabili per la costruzione delle batterie che alimenteranno queste nuove tecnologie (come già accade per quelle degli smartphone e device di consumo). Nulla di nuovo: i disagi causati dall’estrazione di questi minerali sono già noti agli esperti, ma per consentire una totale transizione ecologica la richiesta sarà nettamente maggiore (migliaia di tonnellate in più). Oltre il litio e il cobalto, aumenterà anche la richiesta del rame, altro materiale indispensabile per la costruzione dei circuiti elettrici, di cui gli esperti stimano una crescita di oltre il 300% entro il 2050.

“Inquinare di più, per inquinare di meno?”. 

È vero, può apparire un paradosso. Ma sembra che, al momento, sia un compromesso iniziale indispensabile.

 

Sfruttamento ambientale e non solo

Oltre al nuovo allarme ambientale, bisognerà fare i conti anche con lo sfruttamento umano. 

Il 60% della produzione mondiale del cobalto proviene dalle Repubblica del Congo dove, nella maggior parte delle miniere, si lavora senza alcun controllo di sicurezza e regolamentazione. Per la manodopera, vengono assoldati bambini anche di età inferiore ai 7 anni che, lavorando senza sosta, rischiano ogni giorno la vita poiché non viene fornito loro alcun dispositivo di protezione personale, respirando ogni giorno polveri cariche di cobalto, i cui risultati sulla salute possono essere devastanti e in alcuni casi anche mortali. Non essendoci inoltre nessun tipo di controllo, gli scarichi dei rifiuti degli impianti di lavorazione si riversano nelle acque locali, avvelenando silenziosamente anche gli abitanti - umani, animali e vegetali – delle zone circostanti.  

Per quanto riguarda il litio invece, l’80% di riserve minerarie si trova in quello che prende il nome di triangolo del litio: un’area geografica circoscritta tra Cile, Argentina e Bolivia. Per estrarlo, vengono pompate grandi quantità di acqua direttamente dalle sorgenti naturali. Gli esperti collegano a questa procedura anche l’abbassamento delle acque sotterranee e la diffusione sempre maggiore di aree desertiche. Questo metallo alcalino inoltre, venendo a contatto con le sorgenti, viene trasportato nelle acque dei fiumi causando fughe di sostanze chimiche tossiche sia per gli ecosistemi acquatici che per l’uomo, che andrà a bere quelle acque: esattamente come accadde nel 2016 nella prefettura Karze (nel Tibet), quando una fuga di sostanze chimiche avvelenò il fiume Lichu, provocando accese proteste da parte dei cittadini del luogo.

Qualsiasi sia la scelta, qualcuno dovrà pagare e, in ogni caso, il prezzo sarà alto.

 

Dalla terraferma al mare: soluzione o altra distruzione? 

“Metals such as lithium and cobalt provide examples of the awkward issues that lie ahead”

Non si può che condividere l’affermazione di Richard Herrington, professore e capo del dipartimento di Scienze della Terra al Museo di Storia Naturale di Londra: metalli come il litio e il cobalto sono esempi di problemi imbarazzanti del nostro tempo. 

Per cercare di superare questi aspetti spiacevoli e paradossali che coinvolgono la tecnologia green, gli esperti stanno valutando di limitare lo sfruttamento delle risorse naturali su terraferma, spostandosi sui fondali marini. Difatti, sono state individuate diverse aree nell’Oceano Pacifico – in particolare nella zona Clarion-Clipperton – in cui abbonda la disponibilità di noduli polimetallici, o comunemente chiamati tartufi di mare: come suggerisce il nome, si tratta di noduli minerali composti da diversi metalli, tra cui rame, cobalto e manganese. 

Utilizzare le risorse provenienti dal mare risolverebbe il problema dello sfruttamento dei lavoratori e della distruzione degli ecosistemi locali, ma c’è sempre l’altro lato della moneta da considerare.

Recenti studi hanno infatti dimostrato che, nonostante la zona Clarion-Clipperton si trovi fra i 4.000 e i 5.500 mt sotto la superficie terrestre, si tratta comunque di una pianura abissale estremamente prosperosa di vita marina. Negli ultimi anni sono state individuate oltre 30 nuove specie, la maggior parte appartenenti alla classe degli xenophyphores (si tratta di organismi unicellulari incorporati nei sedimenti fangosi dei fondali marini). Non ci sono ancora dati sufficienti per stimare l’entità delle ripercussioni, ma gli scienziati marini e gli ecologi avvertono: il recupero dei noduli polimetallici potrebbero devastare queste forme di vita marina, così come il loro habitat.

Insomma, sembra che anche quello delle tecnologie green sia un problema di difficile risoluzione, ma il cambiamento è necessario.

Nell’attesa che gli esperti trovino una soluzione soddisfacente per tutti, è indispensabile dare il proprio contribuito prendendoci cura dei nostri device: litio e cobalto sono presenti nelle nostre case molto più di quel che si pensa e, far durare più a lungo i dispositivi che li contengono, gioverebbe indubbiamente anche all’ambiente. 

Articolo di Marzia Diodati 

 

Fonti

theguardian.com

ejatlas.org

cordis.europa.eu

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